ANALISI DELLA POETICA DI GIOVANNI PASCOLI, PER UN CENTENARIO SENZA RETORICHE
Di Carlo Caprino (del 20/11/2011 @ 07:15:54, in Cultura, letto 3315 volte)

“Ulissismo e dissolvenza omerica nella poesia di Giovanni Pascoli”, è il titolo di un saggio di Marilena Cavallo e Pierfranco Bruni, con progetto del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” nelle edizioni della Casa editrice Pellegrini, che sarà in distribuzione entro la fine dell’anno. Già si comincia a discutere su Pascoli a cento anni dalla morte e sulle diverse tematiche.

Il saggio di Marilena Cavallo e Pierfranco Bruni presenta delle originalità sia nell’impostazioni che nei percorsi poetici. Uno studio che farà discutere soprattutto perché non si ancora alle strutture critiche finora circolanti. Il saggio e il progetto relativo alla ricerca su Pascoli verrà presentato, in anteprima nazionale, a Roma nei prossimi giorni. Per concessione dell’editore si pubblica uno dei capitoli centrali del testo.

Giovanni Pascoli - Da Ulisse alla Buona novella.- Un poetica di un Ottocento decadente
di Marilena Cavallo e Pierfranco Bruni

Si discuterà di Giovanni Pascoli per i prossimi mesi. A Cento anni dalla morte. Ebbene sì. Oltre gli schemi preconfezionati occorre scavare nel Pascoli non detto, non sottolineato, non annunciato. Con qualche provocazione e con un coraggio. Per cercare di capire Pascoli e dintorni. Si parte da una premessa. L’ultimo poeta di un Ottocento decadente e non uno dei primi poeti di un decadentismo che si apre alle innovazioni novecentiste. Giovanni Pascoli vive l’unità linguistica risorgimentale con gli articolati innesti di dialetti e formazioni etniche abbastanza evidenti dal punto di vista espressivo soprattutto nel contesto dei primi scritti.

Ma il suo Ottocento sembra disarticolarsi intorno alle proposte tematiche dalle quali si evidenzia la forza innovativa che va all’esterno della consapevolezza del progetto linguistico. È come se la lingua, a volte, non trovasse la stessa temperie dei percorsi letterari
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Pascoli non segue la letteratura come fissazione di una immagine meramente letteraria e ciò lo chiarisce nei “Poemi conviviali”. Sembra dover fare i conti con un Pascoli che si confronta sia con l’assurdo che con la dissolvenza. L’assurdo richiama l’enigmaticità raccolta da Ionesco mentre la dissolvenza è l’attraversare, in questo caso specifico, quella “vacanza dell’anima”, che sarà molto cara ad Alfonso Gatto, che condurrà il poeta a superare i canti melanconici del suo primo impatto poetico per addentrarsi in una universalità che è quella chiaramente omerica ma anche cristiana, profetica, musulmana che lascia “L’ultimo viaggio”, quello dell’XI libro dell’Odissea per definirsi, anche su un profilo leopardiano, nella parabola de “La buona Novella”. Ulisse, Calipso, il viaggio, Alessandro ovvero l’errare, la solitudine e l’immortalità nel mito, la partenza e il ritorno, l’illusione e la disillusione sono rivelazioni che stringono la vita lungo i percorsi degli archetipi che in Pascoli convivono con una psicologia del perduto.

Ma se Ulisse rimane nel viaggio concluso nella morte o resta il personaggio inclusivo nella visione dell’immortalità – morte il Vangelo di Luca, II, 8 – 19 racconta il mistero della nascita di Cristo. Pascoli non contrappone il mito al sacro ma dispiega la sua parola lungo la comprensione della “parabola”. Con “ La Buona Novella ” Pascoli immette nella geografia poetica il dialogo religioso tra l’Oriente e l’Occidente.

Se Ulisse e Omero restano nella grecità profonda come l’immaginario di un mito immortale la Natività e Cristo non sono un immaginario ma l’esperienza dell’eterno. Maria Belponer nel commentare, a premessa, i versi de “L’Ultimo viaggio” osserva: “Odisseo, per eccellenza eroe della vita in Omero, diviene il simbolo della disillusione e del fallimento, in una riscrittura che rispecchia lo smarrimento dell’uomo di fin de siécle e fa di Odisseo addirittura un nostro contemporaneo” (Maria Belponer, in Giovanni Pascoli, Poemi conviviali, Bur Rizzoli, 2010, pag. 104)
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Un contemporaneo. Proprio vero. Il mito trasfigurato oltre la storia non è una devianza. Ma è la letteratura in ascolto della contemplazione vissuta sino alla lacerazione del presente. Pascoli sa che il presente vive nel contemporaneo ma non è l’uguale atmosfera o l’uguale cerchio nell’infinito della parola che cerca di raggiungere comunque l’infinito. Si è oltre perché si convive, senza strappi, con la lontananza. “Ed ecco a tutti colorirsi il cuore/dell’azzurro color di lontananza” (da “XIII. La partenza”, “Poemi conviviali”). L’omerico errare è fatto di lontananze. La presenza di Ulisse è l’accettazione della disillusione che convive, condividendolo, con il sogno.

Con questa poetica, che è tutto intrisa di una marcata cultura occidentale, Pascoli si confronterà sia attraverso i versi di “Gog e Magog” sia con gli spaccati tra Occidente ed Oriente che si leggono, appunto, ne “ La Buona Novella ”. Nel primo caso Pascoli non può fare a meno della eredità islamica, alla quale era legato, e chiama in causa come elemento anche bibliografico il Corano. Il mondo delle profezie è altro da sé rispetto alle magie di Circe o all’onirico sentire di Calipso. Il tracciato greco ha bisogno di riferimenti biblici per far sopravvivere la metafora del viaggio nella sopravvivenza della civiltà della parola.

Se la grecità cerca l’immortalità nel mito. La profezia si intreccia nell’attesa e nella speranza che sono i percorsi sicuri del mistero. La modernità, in fondo, di Pascoli consiste proprio in questo passaggio che è fondamentale: “Sboccò bramando, e il mondo le fu pane” (chiusa del XIX di “Gog e Magog”) con “Si svegliava sui monti. Erano pochi/pastori che vegliavano sui monti…” (incipit di “I. In Oriente”). Un rivivere è un ritrovarsi ma la religiosità che si confronta con il mito in conclusione dei Poemi si trasforma in una eredità cristiana come per sollecitare una poetica della fede. La cristianità in Pascoli non è soltanto un dire o un ascoltare. È un sentire e trasportare oltre la parola lo stesso sentire. I versi che chiudono “In Oriente, IV” recitano: “- Quei che non muore… Ed ella: -Il figlio mio/morrà (disse, e piangeva su l’agnello/suo tremebondo) in una croce… - Dio…-//Rispose all’uomo l’Universo: E’ quello!”.

Mentre religiosamente il richiamo alla consolazione delle pene è un fatto che scava nei meandri dell’anima come la chiusa dell’ultimo ancoraggio che regge la IV parte dei versi “In Occidente”. Così: “Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,/e i morti ai morti, e le tombe alle tombe/e non sapevano i sette colli assorti,//ciò che voi sapevate, o catacombe”. In Ulisse c’è il mare e qui ci sono i sotterranei. Pascoli è un poeta nell’Occidente delle discordanze tra l’accettazione dell’immortalità di Calipso e l’eternità del mistero della natività. Forse nella classicità c’è la memoria e il remoto che costantemente ritornano come voci e come ombre in uno specchio che non smette di richiamare riflessi di nostalgia. Si è detto della “modernità dell’antico”.

Nella sua introduzione ai “Poemi conviviali” Pietro Gibellino ebbe a scrivere: “La classicità che una lunga tradizione ci aveva mostrato bianca e marmorea, Pascoli la riveste di morbida ombra, ne indovina i sogni, la rievoca con il sentimento di profonda nostalgia, fatto insieme di malinconia per una civiltà tramontata e di incerta speranza in una Buona novella. Qui sta forse il segreto della loro modernità” (Pietro Gibellino, Introduzione a “Poemi conviviali”, op. cit., pag. XIII)
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La modernità di Pascoli ha una sua consistenza proprio nel momento in cui alla poesia concede lo spazio di una meditazione articolata che ha come sfondo una antropologia religiosa, forse una antropologia dell’anima che fa riferimento non tanto all’estetica quanto ad una metafisica della confessione. L’Ulisse che viaggia e non raggiunge il ritorno e non rivede Itaca è una innovazione come parimenti diventa innovativo il confronto – dialogo tra Oriente ed Occidente in riferimenti che pongono all’attenzione da una parte la visione e i nomi del Corano e dall’altra la notevole imponenza della Bibbia.

Solo penetrando questo tessuto il Pascoli che interagisce tra il mito e il sacro è il poeta che restituisce alla modernità la base di una incisiva classicità alla cui radice resta il sublime leopardiano. Leopardi è il “canto notturno” che si vive non solo in forma poetica e definitivamente malinconica, di una malinconia che è bellezza e tristezza, ma è anche l’esercizio di una struttura linguistica dalla quale si ricava il meditante “pastore errante”. Nell’ulissismo c’è l’errare mentre nel Cristo c’è il pastore. Non basta, comunque, dire che in Pascoli rivive l’antico.

Ma il classicismo è nella modernità di un antico che penetra la contemporanea dissolvenza del presente. Se c’è dissolvenza c’è anche la magnificenza di una eredità molto coerente ai processi letterari che Pascoli ha attraversato dopo il superamento dell’innocentismo delle prime poesie e le retoriche dell’ultimo periodo
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I “Poemi conviviali” restano il fulcro centrale di un poeta che ha assorbito tutto l’Ottocento e che è riuscito a staccare un orizzonte di nostalgia collocandolo in un tempo che è fatto di memorie ritrovate. Il proustiano candore di Pascoli si stacca anche dal “borgo natio” per abitare la metafora dell’infinito. Proprio nel momento in cui si trova dentro il cuore dell’infinito Ulisse ripara con la sua fine tra le braccia di Calipso e il racconto della Buona novella è un passaggio di fede tra l’Occidente cristiano e l’Oriente cristiano e cranico. Maria non è Penelope e tanto meno Calipso. Cristo non è Ulisse e tanto meno Achille. Qui è il dato centrale della cristianità di Pascoli. Viaggia dentro il mito attraversandolo con i personaggi – eroi ma la sua scelta si definisce in “E venne bianco nella notte azzurra/un angelo dal cielo di Giudea,/a nunziar la pace…” (“IV. In Occidente”).

Bisogna attraversarle le pene per vive con la consolazione. Il Pascoli dell’ulissimo si dissolve e trova il suo “destino” nella consolazione delle pene. Un ritornare non tra le braccia di Calipso, pur essendone innamorato, ma tra le parole del mistero. Le uniche voci che hanno l’Universo tra le rughe dello sguardo nelle parole di Cristo con l’angelo che “passò candido e lento…/e dicea, PACE SOPRA LA TERRA !” (“IV. In Occidente”)
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