“DJANGO UNCHAINED”, GRANDE PROVA DI TARANTINO CHE OMAGGIA GLI “SPAGHETTI WESTERN” ITALIANI
Di Carlo Caprino (del 03/02/2013 @ 21:45:22, in Spettacoli, letto 1435 volte)

In tutte le arti e le discipline umane, il progresso del singolo praticante può essere grossolanamente diviso in tre fasi: la prima è quella dell’Allievo, in cui si seguono quanto più fedelmente possibile gli insegnamenti che vengono impartiti, la seconda è quella dell’Adepto, in cui il praticante applica gli insegnamenti ricevuti all’interno di una forma codificata ed individuabile, la terza è quella della Maestria, in cui il praticante esprime la “sua “Arte, in uno stile proprio ed originale.

Quentin Tarantino è oramai da tempo un Maestro, dimostrando sin dal suo esordio con “Le iene” di avere assimilato e fatto proprie le lezioni che si è auto-impartito. Come un vero Maestro, Tarantino – al pari di Kubrik (ed il paragone non sembri irriverente) può passare dal noir al western, dalla commedia al film di guerra, mantenendo originalità, freschezza ed uno stile inconfondibile.

“Django” è – semmai ce ne fosse ancora bisogno – l’ennesima conferma del genio di Tarantino, che non si prende mai troppo sul serio e che si diverte a giocare coi ruoli spiazzando lo spettatore. Solo lui potrebbe girare un western non solo senza un pellerossa, ma quasi senza americani, considerando che i protagonisti principali sono schiavi africani, cacciatori di taglie tedeschi e possidenti terrieri infatuati della Francia.

 

 

 

 

Senza lesinare sparatorie e spargimenti di sangue, Tarantino sembra concedersi addirittura un omaggio ai cartoon della nostra infanzia, perché l’esplosione con tanto di cratere in cui scompare l’impiegato della miniera interpretato dallo stesso Tarantino assomiglia troppo a quelle di Wile Coyote per essere casuale. Allo stesso modo, Tarantino stempera con l’ironia caustica che gli è propria anche le scene più drammatiche, ed ecco che la drammatica tensione di un duello è spezzata da un dente gigante ballonzolante sulla carrozza di un dentista ambulante, che la scorreria di codardi adepti del Ku Klux Klan è ostacolata da un difettoso lavoro di sartoria e che la devastazione di una esplosione che rade al suolo una casa padronale è pareggiata da un cavallo che esegue un esercizio di dressage.

Tre ore volano e la pellicola non soffre praticamente mai di momenti di noia o cali di tensione, anche nelle scene meno adrenaliniche, in cui Tarantino si concede e ci concede il gusto di campi lunghi ad inquadrare scenari affascinanti, che siano rocce desertiche o montagne innevate.

 

 



Tarantino è un Maestro e – come i veri Maestri – non si sente sminuito a citare altri Maestri che lo hanno quasi certamente ispirato, è evidente – tanto nel titolo del film che nella colonna sonora e nella grafica dei titoli di testa – l’omaggio agli “spaghetti western” italiani di Leone e Corbucci su tutti, altre chicche sono disseminate nella pellicola, ma lasciamo allo spettatore il gusto di scoprirle.

Manca in questa pellicola una figura femminile forte come c’erano nei precedenti lavori di Tarantino, la Kerry Washinghton che interpreta Broomhilda non può e non vuole essere Uma Thurman ma neppure Jessica Alba o Mèlanie Laurent, ma di certo non mancano le prove di recitazione: Di Caprio, Foxx e Waltz non sbagliano un colpo, ma personalmente il posto d’onore lo assegniamo senza dubbio ad un quasi irriconoscibile Samuel L. Jackson, che interpreta un personaggio straniante e maiuscolo, in un ruolo che è davvero difficile definire “non protagonista”.

In conclusione “Django Unchained” è un film di Tarantino a tutti gli effetti: sangue a fiumi, ironia a piene mani, dialoghi taglienti, salti temporali, personaggi improbabili, storie incredibili ma tutto appare logico e sensato pur nella apparente assurdità della storia. Questo è Cinema con la maiuscola, Tarantino è e rimane un Maestro anche se non vincerà mai un Oscar e le sue pellicole sono e saranno pietre miliari della Storia del Cinema.


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