GIACOMO LEOPARDI: UNA RILETTURA OLTRE LO STORICISMO CRITICO. IL MISTERO NELLA POESIA DELL’ALCHIMIA
Di Pierfranco Bruni (del 22/10/2013 @ 07:19:17, in Cultura, letto 1884 volte)

L’alchimia e il mistero. Un tracciato in cui il mito e l’archetipo del misto stesso diventano cocci di una conchiglia che lascia echi tra le parole che sono poesia. Giacomo Leopardi è un vissuto tra le pieghe di quell’indefinibile nostalgia che lega spiritualmente il labirinto con il caos.

I suoi Canti e le sue “Operette”, metafora abusata del concetto di “morali”, costituiscono il vero segno di un processo che è dentro il silenzio esoterico di un Risorgimento annunciato, mai concluso e perduto, lungo le strade della favola di un destino di Nazione o di Patria, ma contestualizzato fuori dalla storia proprio perché il mito dell’infinito per durare come infinito ha bisogno di una magia che soltanto l’assenza di storia può dare. Ma l’assenza della storia ci avvicina alla presenza del tempo. L’alchimia e il mistero sono comunque elementi e modelli di un archetipo che intreccia il senso del finito con l’infinito grazie alla meraviglia simbolica in cui l’amore e la morte si danno appuntamento.

E dandosi appuntamento, come accade in Leopardi, giocano a scacchi con il destino. La donzelletta non è una figura retorica. È un immaginario in una giornata in cui il villaggio lo si legge come una festa che ha la sua fine, ovvero ha il suo destino. Infatti in Leopardi è proprio l’infinito che diventa indefinibile.

 

 

 

La nostalgia che si recita quando il poeta va alla ricerca di Silvia o quando ha bisogno di incontrare nella sua metafisica Nerina diventa indefinibile sul quadrante del tempo. Un tempo che non ha coincidenza e neppure concordanze ma solo rimembranze. Sono le rimembranze che si lasciano ascoltare incidendo passi nei solchi di un esistenzialismo romantico. Leopardi esistenzialista romantico? Ma certamente sì. Perché il senso del tragico impegna il cuore e la fisicità dell’uomo. Il senso del tragico è, appunto, il dialogo possibile tra amore e morte come recitato, tra l’altro, di un grande poeta che segna l’inizio del Novecento: Carlo Michelstaedter.

Leopardi e Michlestaedter sono il destino che passa attraverso la tragedia e si fa alchimia. Ma cosa è questa alchimia in Leopardi? È il canto di un pastore che diventa errante. Non viaggiante. Non viandante. È errante tra le stelle d’Oriente e la luna. Questa luna che ha i richiami delle voci antiche ed è proprio la luna che lascia le sue vesti metaforiche per entrare nel disegno onirico di cui l’alchimia si nutre. La magia, forse sì. Ma l’infinito indefinibile non è forse magia? La morte di Silvia in una assordante nostalgia e il richiamo come rimembranza di Nerina non sono forse le tracce di un urto con la storia?

Ma la rottura con la storia ci impone un recupero del sottosuolo della memoria, di quel sottosuolo che fa esplodere il destino di Aspasia in un mistero che incarna la debolezza di un respiro mai cessato in una angoscia che conosce la realtà ma non la accetta. L’alchimia non è un gioco. L’alchimia resta un mistero. Forse irraggiungibile. Ma i dialoghi di Leopardi sono la trasformazione del tutto nella simbologia dei dolori. Cosa vuol dire pessimismo cosmico? Niente. Neppure il termine pessimismo ha una sua valenza o addirittura una sua forma. Leopardi entra nel cerchio del senso tragico. Di quel senso tragico che ha bisogno del mito. Come in Pavese, Leucò per Pavese è la trasposizione del mito – dolore in costante tragedia, anzi è la consapevolezza della tragedia.

Così come quel “Canto del gallo Silvestro” che sfiora il bisogno di oblio ma anche la necessità del grido in una classicità che diventa metafisica dell’anima. L’oblio è la metafisica di una parola lacerata ungarettianamente nel cuore e nello strappo dell’anima. Un oblio che ha qualcosa di barocco andaluso che tocca però le ali di una farfalla gozzaniana il cui crepuscolo è nell’attesa, anzi è l’attesa.

 

 

 

L’oblio e l’attesa in Leopardi ridefiniscono il magico del tempo e ci riportano alla ricerca di quella pietra filosofale che Tommaso D’Aquino (121 – 1274) chiama appunto alchimia se pur tra proposte di eresia e definizioni apocrife. La luna di Leopardi potrebbe anche essere quell’alchemica visione della “Pietra che tramuta Giove in Luna” ben raccontata da Tommaso D’Aquino nel suo scritto? Quella luna che non ha le ombre di oro ma ha la circonferenza d’argento. Il Sole e la Luna sono il segno alchemico e la Luna , in Leopardi, amalgama il bianco che precipita tra i ricordi. I ricordi restituiscono immagini e non solo nomi ma ogni nome resta chiaramente legato ad un immaginario simbolico.

Recanati è un luogo ma è un nome e il luogo – nome se pur usando le parole metaforizzate viene ad essere definito come immagine. Ed è proprio l’immagine la costola di fuoco che imprigiona le fiamme in un falò spento le cui cenere nascondono la nostalgia. Per catturarla questa nostalgia si ha bisogno di credere fino in fondo all’infinito. L’infinito certamente è il mistero. Ma se c’è il mistero e c’è la possibilità di credere nell’indefinibile infinito non può sostanziarsi un percorso in cui l’infinito stesso si può materializzare. Come è possibile dare corpo all’infinito? Chi dovrebbe dare sostanza a questo infinito. Il fato o il mito della selva dantesca che ha radici archeologiche nella graffiatura della parola perduta? Ma i termini o le forme concettuali di Leopardi sono oltre la storia ma anche oltre la materia.

Cosa è la “silente riva” se non un magico affresco di un immaginario che si focalizza nella definizione di una immagine stessa? E l’amore oltre i personaggi e la morte cosa è se non una “lunga fede”? Credo che con “Ultimo canto di Saffo” si entri nel cerchio magico del desiderato che è l’incontro tra il tragico e la vita. Non c’è legame tra il vivere tragicamente la vita e il morire nella vita tragicamente. C’è, invece, quel senso del tragico che può raccogliersi nell’ironia dei “Dialoghi” che si fanno “Operette”. L’ironia di Leopardi tocca la visionarietà del tragico proprio nell’ultimo verso de “L’infinito”. È dolce naufragare in questo mare? O non ha importanza naufragare perché la dolcezza di questo mare va oltre ogni misura? Il tragico si fa sensuale.

La dolcezza diventa un piacere o viceversa e la luna, la sempre presente luna, scaglia luci e ombre tra la consapevolezza della ricordanza e l’oblio del “rimembrar”. Se non è un perdersi tra la schiuma della magia di senso questa dimensione che ha connotati onirici dove sarebbe possibile rintracciare il segno di un sogno che non recita parole vane ma fa della vanità la passione del perduto. Infatti Leopardi nella sua tragicità offre il silenzio del perduto. Quel perduto che si cattura come ricerca di destino o come certezza di affidarsi al fato. Leopardi si dichiara consapevole del fato. L’incontro tra “la vita umana e il fato” non è il destino che si appropria di una magia interiore all’uomo e alla parola. È piuttosto un lanciare lo sguardo verso la profezia.

Leopardi e la profezia? Il “mistero delle cose” è nella “piena dolcezza” del sopravvento di una vita che non si consuma nel dolore ma nella acquisizione lenta ma efficace del senso del tragico. E questo senso del tragico trova sì una sua compostezza ma la trova nella metafora del deserto che segna il viaggio sotto la luna di sempre e con le “speranze antiche”. Il “rimembrar” è una speranza o una consolazione? È una maschera o è uno specchio che riflette il cangiare della luna sotto i raggi del mare? Lo specchio e il mare sono il senso del ritrovato leopardiano come il cielo e la terra del “Cantico del Gallo Silvestro” delle “Operette morali”. Proprio in queste pagine l’incontro tra il mito di Oriente e le ritualità dell’Occidente si parlano come fusione di alchimie e non di astuti oblii. Questo Cantico ci è dato in “lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica…”. Ci sono tutti gli elementi di un linguaggio alchemico che in una tematica ad intreccio concilia la lingua con la metafisica dell’infinito. E qual è il punto? Il punto è che “i diletti” e “gli affanni” si vivono “nello spazio del giorno nuovo”.

Questo spazio non confutabile con la storia ma dialogante con il tempo annuncia il giorno nuovo. In fondo l’agonia del tragico è nel vivere il giorno nuovo con la capacità di afferrare l’attesa. Leopardi vive nell’angolatura dell’attesa. La sua pietra filosofale alla Tommaso D’Aquino è una profezia dell’inatteso nella speranza che accada. La speranza che possa accadere è l’attesa. Il gioco delle contraddizioni esplode nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” proprio quando ci si pone di fonte al timore di cosa si possa temere di più: il porto o la tempesta. Forse Leopardi ha temuto di più il porto soprattutto quando potrebbe apparirci come un “porto sepolto”. La tempesta è nella vita. Il fulgido camminamento del poeta avrebbe senso se dovesse venir meno il naufragio dell’uomo nel mare della vita? Errante? Ma anche pellegrino.

Ebbe a scrivere Vincenzo Cardarelli in “La favola breve di Leopardi” riferendosi proprio al concetto di pellegrino: “Vale a dire un pellegrino infaticabile traverso tutte le età e tutti i climi. Fu un uomo inestinguibilmente nostalgico. La sua perfezione e la sua personalità consistevano in questo sforzo fantastico di evasione dal tempo verso non si sa dove, ed erano un dono del suo immenso potere di illudersi, un effetto mirabile, e quasi direi precario, della sua visionarietà di poeta, la quale, più tardi, doveva convertirsi in riflessione storica e da luogo a quei famosi pensieri sul mondo antico che precedono Nietzsche di oltre cinquant’anni e costituiscono oggi il fondamento morale ed estetico d’ogni spirito moderno e avvertito”.

Quello spirito che ben ha saputo raccogliere la magia della luna e la singolarità delle ombre che la luna proietta sull’orizzonte. Non ci sono macchie ma ombre e l’attesa resta un magico incanto che è il sentimento del tutto e non del nulla. Ma se la luna è una ricordanza di tempi che sono stati il ricordare è una memoria nella quale i simboli sono disegni di una visionarietà in cui il sogno è la metafora non di un venditore di almanacchi ma di un venditore di lune nel vento che intreccia il tempo con i ricordi. In questo dire e in questa sensualità della disarmonia Leopardi ha deciso, perché il destino decide e fa decidere nella imprecisione delle regole, di abitare la tempesta perché è nella tempesta che le voci sono un ascolto di parole incastonate nei cammei degli uomini erranti.

La sua poesia ha la magia dell’infinito pur vivendo la descrizione di un colle ma quell’infinito è la rottura di ogni realismo e di ogni storia perché la storia comincia e finisce mentre il tempo è uno spazio indecifrabile come gli uomini che cercano, che aspettano, che segnano. A Nerina: “e come un sogno/Fu la tua vita”. Questo senso tragico è la pietra sulla quale restano incisi i segni dell’infinito. Ma chi riesce a leggere la magia o a catturare lo sguardo di uno sciamano non ha giocato con gli altri ma con se stesso in un sogno perduto o perdente che riempie e raccoglie l’umano e il disumano.

Ma la poesia di Leopardi è una disperante luna che disputa le sue stagioni sul tempo della morte in una danza antica come facevano gli sciamani la notte prima della tempesta.


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