"PIERFRANCO BRUNI" L'INTELLETTUALE IMPEGNATO NEL SOCIALE. UN'INTERVISTA, UN CONFRONTO.
Di Carlo Caprino (del 28/11/2013 @ 10:20:00, in Cultura, letto 1280 volte)

In questo grigio e freddo inverno di novembre incontriamo Pierfranco Bruni, noto intellettuale, spesso presente con i suoi interventi anche sulle pagine di Gir. Un'intervista che diventa una sorta di incontro e discussione sui principali temi che interessano in questo momento il nostro Paese.

Dottor Bruni, nello scegliere gli argomenti per una sua intervista non c’è che l’imbarazzo della scelta, tanti sono i campi in cui non manca di esprimere il suo pensiero. Possiamo dire che Lei rappresenta la figura dell’intellettuale che non disdegna di impegnarsi nei temi quotidiani del sociale? Crede che una certa “intellighenzia” italiana dovrebbe uscire dalla torre d’avorio in cui si è rinchiusa e “sporcarsi le mani” con i temi di attualità?

Sono convinto che un intellettuale deve sempre e comunque testimoniarsi. Non testimoniare il tempo in cui vive. Ma testimoniarsi con una vera “azione” sulle idee. Questo significa non avere mai timori di esprimere il senso della propria vita: con coraggio, dignità e cercando di essere, come uomo, “impareggiabile”. L’esempio proviene però nel saper guardare la realtà non con una “posizione” ideologica ma una visione esistenziale. Ciò significa che il temuto mettersi in discussione non deve esistere. Per l’intellettuale vero non esiste. Il problema esiste per gli altri. Molte delle sue opinioni potremmo eufemisticamente definirle "controcorrente”; tra queste spicca senz’altro una certa diffidenza verso Papa Francesco, che gode invece di un notevole gradimento popolare.

Cosa non la convince di Papa Bergoglio? La popolarità che gode oggi Papa Francesco è la stessa della sofferenza popolare vissuta alla morte di Giovanni Paolo II? L’essere popolare non è un sintomo da prendere in considerazione. Soprattutto in una società della totale comunicazione. La popolarità può anche essere l’efficienza dell’effimero. Non mi convince di questo Papa la superficialità con la quale cerca di affrontare le questioni. Una superficialità che viene considerata, io dico confusa, semplicità. È una superficialità dovuta in un’epoca in cui si sarebbe bisogno di pesantezza delle idee. Siamo troppo invasi dalla leggerezza dell’anima (ovvero dell’essere: Kundera) o dalla debolezza del pensiero.

Davanti ad una drammatica questione come l’immigrazione – emigrazione non bastano le parole senza una concreta azione. Occorrono gli strumenti per una azione. La carità non basta. Occorre una politica della chiesa o meglio un Progetto definito e non la supplica alla speranza. D’altronde fa anche qualche passo indietro rispetto al “varcare la soglia della speranza” di Giovanni Paolo II. Il cambiamento del Governo della Chiesa non è una questione soltanto strutturale che riguarda gli organismi interni.

È un modo di affrontare il rapporto tra fede e mistero. Mi sembra un tema primario rispetto ad una posizione tra teologia e ragione. La fede è antropologia nell’esistere dell’uomo. Non mi convince il suo tentativo di rompere con la Tradizione e le sue aperture che non hanno senso. Non mi ha convinto il suo discorso a Lampedusa. Non mi convince il suo giocoso “buon pranzo” domenicale, che non è da trascurare sia come linguaggio che come etica nella morale di una chiesa carità. Non mi convince il suo volersi dimostrare un “rivoluzionario” rispetto a Benedetto XVI. Ma ancora non ho ascoltato da lui lo spessore del discorso di Ratisbona e tanto meno una visione della Storia come è stata incentrata nelle prime encicliche sia di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI. Nel primo c’era il vissuto umano prioritario con l’esperienza polacca. Nel secondo c’è la teologia trasformata in rivoluzione della catechesi. L’ultimo libro di Benedetto XVI è un atto di rivoluzione del Nuovo Testamento.

Non so se ci siamo resi conto di ciò. In Papa Bergoglio c’è il rischio che la semplicità si trasformi in banalità, in cose scontate. Su questo concordo con Messori e Ferrara. In Papa Francesco non leggo alcuna interpretazione teologica e tanto meno una dichiarazione di Mistero. C’è una costante provvisorietà sul concetto di speranza attraverso il passaggio di una semplice discorsività. Questo Papa per dare un segnale di altra natura dovrebbe immediatamente incontrare il Dalai Lama. Nel mondo tibetano la speranza è contemplazione. Nel mondo cattolico cosa è la contemplazione?

 

 

E’ noto il suo impegno politico, che in passato vide il suo contributo anche nella amministrazione provinciale di Taranto. Come giudica oggi il panorama attuale alla luce delle vicende politiche e giudiziarie locali e nazionali, e quale il suo parere sulla operazione di riunificazione della Destra che Storace ed altri sembrano voler portare avanti?

Non è finita la politica. È cambiato il sistema di vivere la politica perché sono cambiati i processi culturali. Ho sempre sostenuto che il suicidio della politica passa attraverso l’omicidio della cultura. Questo purtroppo è avvenuto. Il nostro tempo propone una politica senza cultura perché c’è stata la prevalenza della prassi rispetto al pensiero. Dove andremo a finire? Rileggendo Tomasi di Lampedusa. La Destra ha bisogno di trovare una sua unità. Mi riferisco alla destra tradizionale. Deve farlo con intelligenza e coerenza. La si smetta di fare le prime attrici in un teatro vuoto. Cerchiamo di creare il teatro e di portare il pubblico dando uno spettacolo decente. L’indifferenza della politica e nei confronti della politica ha ucciso la destra.

Lo dicevamo prima, il suo essere intellettuale non l’ha allontanata da una certa cultura “popolare”, anzi l’ha portata ad esaminare ed esaltare figure come De Andrè o Califano, da molti ritenute “minori” o “maledette”, affiancandole a “mostri sacri” come Dante o Bevilacqua. Nelle scuole italiane dovrebbe esserci una rivalutazione di questa poesia moderna? Meno nozionismo e più analisi critica? Meno Jacopone da Todi e più Fabrizio De Andrè?

Nelle scuole c’è bisogno di rivoluzionare i metodi, i cartelloni, le strutture e di permettere ai docenti un costante aggiornamento. Non si può continuare ad insegnare proponendo libri di testo che presentano schieramenti ben definiti. Non è possibile che i docenti accettino ciò. In una ricerca costante le culture si autopongono in discussione. Siamo ancora al triangolo Dante, Petrarca, Boccaccio o Carducci, Pascoli, D’Annunzio. È semplicemente ridicolo. È colpa dei testi adottati ma è anche colpa di una certa classe docente, non di tutti i docenti, non voglio generalizzare perché ci sono docenti che hanno le palle sotto e altri che hanno le pagliuzze negli occhi, che non studia i fenomeni non della letteratura ma della cultura nelle sue articolazioni e nei suoi rapporti interdisciplinari e internazionali, i quali rispondono ad una logica antologica. Ci sono docenti però che non stanno a questo gioco.

Le mie non sono provocazioni. Dante o De André? Io sono uno che non ha mai seguito i testi scolastici perché sono andato oltre e non ho mai ascoltato i docenti perché mi sono formato alla disubbidienza scolastica, tanto che sono stato sospeso, bocciato e addirittura i miei quaderni di italiano venivano lanciati dai docenti dai balconi perché erano convinti che i miei temi fossero copiati. Un ribelle. Forse per questo amo la rivolta di Camus. Ognuno di noi porta la propria esperienza della scuola che ha vissuto nella vita. Se non fosse stata per la mia caparbietà e per l’andare oltre i testi scolastici non avrei mai pensato che Dante e De André potessero stare insieme in una interpretazione antropologica delle culture. Su Dante c’è per me una questione aperta a livello nazionale. Quanta vera poesia c’è nella Commedia? È realmente poesia o tentativi di strutturare una teologia?

Dante va studiato attentamente per poter dire che realmente il grande poeta o il poeta è nelle Rime e nella Vita Nova. Il resto è altro. Poi se si vuole indicare Dante come personaggio esemplare nella vita di quel tempo ci sarebbe tanto da discutere. Preferisco la coerenza di De André che il falso moralismo di Dante. Mi fa una domanda su Jacopone. No. Jacopone è ben altra cosa. Jacopone è realmente il vero poeta di una nuova epoca insieme a Cecco Angiolieri. Ma la letteratura vera nella modernità comincia con Boccaccio e non con Dante. Io dico: meno Dante, sempre più forza a Jacopone, centralità di un Foscolo tragico ed esistenzialista e non “materialista e meccanicistico” (concetti che non significano nulla). Centralità unica di D’Annunzio. Il resto è nella contemporaneità che comincia con De André. De André, ho già sottolineato ciò, è il vero poeta della sintesi di una epoca nuova e Califano è uno straordinario inventore dei linguaggi comparati. Io vado sui testi e non sulle antologie e tanto meno su studi passati agli studenti attraverso tre quattro mani. L’esempio di Cesare Pavese è esemplare. Lo si colloca ancora tra i neorealisti. È una vergogna.

 

 

Lei si proclama orgogliosamente figlio della Magna Grecia, un concetto o una “condizione dell’anima” che ritiene vada recuperata a 150 anni dalla Unità di Italia? E’ il momento di rivisitare onestamente e obbiettivamente le nostre radici per riscoprire chi siamo e da dove veniamo e scegliere dove vogliamo andare?

Certo. C’è bisogno di ripensare i tre concetti fondamentali del nostro esistere nei luoghi. L’identità. L’appartenenza. Le eredità. Noi siamo nella Magna Grecia. Io sono magno greco perché sono Mediterraneo. È impensabile la nostra storia e il nostro destino senza ripensare al Mediterraneo. Albert Camus e Maria Zambrano sono i grandi interpreti di quelle nostre radici perdute. E poi non bisogna dimenticare tutto il nostro mondo alchemico: da Tommaso Moro a Vico. Noi siamo figli di civiltà che si sono incontrate, perse e ritrovate.

In una Europa sempre più burocratica ed in un mondo sempre più omologato all’inglese, Lei da anni difende e studia le minoranze linguistiche. Un vezzo da studioso o la convinzione che nella lingua si conservi l’anima di un popolo?

Le etnie sono il nostro essere stato e il nostro essere. Le civiltà sono eredità etniche e i popoli vivono e convivono su processi etnici: linguistici, antropologici, letterari, filosofici. Soprattutto il Regno di Napoli è stata ed è una civiltà etnica. L’Unità d’Italia non è mai avvenuta antropologicamente e mai ci sarà. Perché le nostre storie sono le nostre storie. Non credo alle culture condivise. Credo agli incontri tra culture. Io non condivido ciò che non mi appartiene.

Le cronache di restituiscono quotidianamente notizie di sbarchi di profughi provenienti dal Sud del mondo. Lei da tempo descrive il Mediterraneo come un mare che unisce e non divide, come crede che andrebbe affrontata – culturalmente e praticamente – questa situazione che oltre alle implicazioni umanitarie ha anche notevoli implicazioni pratiche e sociali?

Non abbiamo una politica della integrazione. Parliamo di accoglienza. Papa Francesco parla di accoglienza. Ma cosa significa “accogliere”? Ci sono responsabilità precise di natura geo-politica. L’Adriatico e i Balcani sono esplosi ed implosi nei primi anni Novanta e si sono curate le ferite con una politica eurocentrica. La cosiddetta primavera araba nasce da una militarizzazione anglofrancese americana e l’Italia ha avuto delle responsabilità straordinarie. Bisogna entrare in una politica dell’inclusione. In che modo? Ma l’Italia è dentro l’Europa? Bisogna definire questa questione aperta.

Se non lo è la sua politica nei confronti del Mediterraneo deve completamente mutare perché l’Italia è Mediterraneo. Non lo abbiamo capito nel 1861 e non riusciamo a capirlo neppure oggi. Noi siamo un Paese Mediterraneo prima di essere soltanto Europeo. Consiglierei di leggere il discorso di Giovanni Pascoli del novembre 1911 dal titolo “La grande Proletaria si è mossa” per entrare in una visione geopolitica mediterranea. Chi ha colpito la Libia ha colpito anche l’Italia. Lo si è capito o no? Mi pare che la metafora è precisa…


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