PAVESE A CALVINO: “VERGOGNA”. METAFORA DELL’IGNORANZA DEGLI INTELLETTUALI PROGRESSISTI
Di Pierfranco Bruni (del 21/01/2014 @ 05:00:37, in Cultura, letto 993 volte)

L’invidia, la gelosia, l’ira (non ribellione), che è anche intolleranza, e la cattiveria anche in letteratura diventano rozzezza, mancanza di stile, accecamento critico. Io ho fatto della mia vita un viaggio tra le isole e le zattere di   Cesare Pavese (1908 – 1950).

Un maestro. Anche quando non scrivo su Pavese e di Pavese sollecito un immaginario che mi riporta a Pavese. Quindi, lo dico a priori senza contraddizioni e senza ipocrisie, sto sempre con Pavese e mi ha sempre, inizialmente, irritato e poi ora ci sorrido sopra (perché l’ignoranza che circola in quel mondo che non dovrebbe essere ignorante ha spaziature infinite: tra i diversi strati delle docenze sino alle accademie vellutate) nel sentire parlare ancora di un Pavese realista, neorealista, normalmente tra realismo, positivismo e naturalismo.

Lo si legga prima di agitare parole. Bugie. Menzogne. Sento ancora parlare di un Pavese “resistenzialista”: malafede, vera stupidaggine, incultura, non conoscenza dei fatti veri. Ma siamo in un popolo di intellettuali ignoranti. Di Pavese non bisogna parlare. Ovvero se si parla di Pavese devono essere occultate alcune verità.

 

 

 

Prova e controprova? Sfogliate le antologie e le storie della letteratura soprattutto dei Licei. Chi mai potrà sollevare la questione di un Pavese fascista? Di un Pavese che scriveva a Mussolini? Ma lui non si è mai nascosto come continua a nascondersi, e a nasconderlo, il Norberto Bobbio fascista e messo in cattedra dal fascismo e sempre negato sino alla prova e controprova dei documenti. Chi mai potrà sollevare la questione di un romanzo come “La luna e i falò” prettamente anticomunista? Chi potrà mai dire che “La casa in collina” è un romanzo “repubblichino”?

Sfido gli intellettuali con i giornali “impegnati”, ancora nella tasca del culo, a dimostrare, con i testi, il contrario. Pavese non è un neorealista. È stato un fascista. Ha anticipato gli scritti di Giampaolo Pansa. Invito a controllare i testi. Ma a scuola questi fatti non bisogna raccontarli. Già, è preferibile parlare di Moravia che guarda dal buco della chiave con gusto le scopate. È preferibile antologizzare Tondelli, un non scrittore, morto purtroppo giovane. È preferibile dedicare moduli a Calvino. Sì proprio al tanto acclamato Italo Calvino (1923 – 1985).

 

 

 

La non consistenza letteraria (figuriamoci del tentativo di fare critica) dello scrittore Calvino e la supremazia di Pavese sono inconfutabili per chi non ha i prosciutti ideologici sugli occhiali. Perché punto il dito su Calvino? Perché non mi ha mai convinto e l’invidia, la gelosia, la cattiveria alla quale facevo riferimento all’inizio mi hanno ricordato il rapporto tra Calvino e Pavese ma anche potrei ricordare il rapporto tra Pavese e il comunista antropologo De Martino che si opponeva, da miope, alla pubblicazione di Mircea Eliade in Italia.

Pavese conosceva bene il carattere di Calvino tanto che in una lettera del 1949 sottolineò delle frasi pungenti nei confronti dell’autore che voleva offrire agli americani delle lezioni sulla letteratura classificandola in un decalogo di stampo sociologico, ovvero gramsciante. Basterebbe il primo impatto per comprendere immediatamente la decadenza della letteratura. Calvino pone la “leggerezza” come primo riferimento.

La letteratura non è mai leggerezza. Calvino Italo come si può considerare il linguaggio letterario, l’archetipo letterario, il taglio dell’anima della scrittura come leggerezza. Semplificazioni da quiz. Si spiega benissimo il fatto della recensione negativa che fece al Pavese di “Tra donne sole”. Non capì il romanzo. Con la leggerezza non si hanno gli strumenti per penetrare Pavese. E Calvino non aveva gli strumenti critici, lo dimostra proprio nelle lezioni americane.

Comunque il mio Pavese, alla critica su “Tra danno sole”, risponde a Calvino con queste parole: “Caro Italo, non mi dispiace che ‘Tra donne sole’ non ti piaccia. Le ragioni che ne dai sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino. Cavallinità e peni di faggio sono pura e bella invenzione… Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre…”.

Poi ironizzando va forte e scrive: “Ma tu – scoiattolo della penna - calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”. Si tratta di una lettera di Pavese indirizzata a Calvino e datata Torino, 29 luglio 1949.

Il maestro Pavese appella il realista – fiabesco Calvino con un termine di condanna: “Vergogna”. Il punto qual è? Pavese è un maestro. Calvino è rimasto ai fianchi. Credo che è necessario ritornare a scrivere su Pavese. Il maestro Pavese. Credo che sia necessario scrivere su Calvino. Rimasto allievo. Semplicemente un allievo rispetto alla originalità, all’autonomia e al coraggio di Pavese. La lettera di Pavese a Calvino è la metafora dell’ignoranza del popolo degli intellettuali progressisti italiani.


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