A 100 ANNI DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE, GABRIELE D’ANNUNZIO E LA VITTORIA MUTILATA
Di Pierfranco Bruni (del 04/03/2014 @ 05:39:17, in Cultura, letto 1869 volte)

A 100 anni dalla Grande Guerra. L’impegno politico, l’interventismo nella Prima guerra mondiale e gli scrittori italiani. Da Ungaretti a Marinetti, da Renato Serra, che morirà in guerra, a Malaparte sino a Papini. Ma è Gabriele D’Annunzio che recita una parte di primo piano tra gesti eroici, tragedia, sconfitte e nobiltà di conquiste in nome dell’Italia.

Nella tragedia della Prima guerra mondiale D'Annunzio trova uno spirito profondamente nobile. Lo trova nei momenti dell'interventismo, ma anche successivamente sino al sorgere del fascismo stesso. Vive con intensità quegli anni tanto che fu artefice di numerosi discorsi il cui punto nevralgico era il nazionalismo. Volle partecipare alla guerra da protagonista.

Per le autorità militari, invece, D'Annunzio doveva rappresentare un simbolo, un emblema, una bandiera, considerata soprattutto la sua età. Nel 1915 il poeta aveva già 52 anni. D'Annunzio non accetta questa "immaginetta" e chiede addirittura di essere impegnato come soldato. Presidente del Consiglio dei Ministri era Antonio Salandra e a lui D'Annunzio il 29 luglio del 1915 scrive una lettera, nella quale si legge: "Io non solo un letterato dello stampo antico, in papalina e pantofole. Io sono un soldato. Ho voluto essere un soldato, non per stare al caffè o a mensa, ma per fare semplicemente quel che fanno i soldati. Ho una situazione militare in perfetta regola. Non soltanto ho la facoltà, ma ho l'obbligo di combattere".

La guerra per D'Annunzio era un fatto esaltante ma anche un gesto che doveva portare al rinnovamento attraverso un impegno civile e spirituale. Era il poeta soldato. Il poeta della contemplazione e del "piacere", il poeta del bello e dell'alcionico, il poeta sensuale e greco diventava così il poeta dell'azione. La guerra era, per D'Annunzio, azione. Lo dimostra, d'altronde, la lettera indirizzata ad Antonio Salandra.

 

 


Durante un azione D'Annunzio perse un occhio. Era il 16 gennaio del 1916. Durante un'operazione di volo alla volta di Zara ebbe un incidente. La tempia destra urtò violentemente contro la mitragliatrice di prua. Quel colpo gli causò dei gravi disturbi tanto che fu costretto ad una pausa di riposo e a restare bendato. Aveva perso la vista all'occhio destro. Ma questo non fermò la sua attività militare.

Riprese in pieno la sua attività e anche a volare. Fu, infatti, proprio la grande guerra a riempirlo di nuova vitalità. Infatti oltre ad essere presente con discorsi che invitavano gli italiani ad entrare in guerra a guerra scoppiata si arruola come Tenente dei Lancieri di Novara. Nel 1916 venne, come si è detto, addirittura ferito ad un occhio. Questa esperienza lo portò delle pagine importati alle quali diede il titolo di Notturno (una vera e propria metafora che testimoniava il suo stato di salute con la vista). Subito dopo questo episodio D'Annunzio si contraddistinse per la "beffa di Buccari" nel 1918 e il volo su Vienna dello stesso anno.

Cosa è stata, in realtà, la beffa di Buccari? La notte tra il 10 e l'11 febbraio del 1918, insieme ad altri 20 compagni, portò a termine un azione di siluramento di un piroscafo austriaco ancorato nelle vicinanze di Fiume, in una baia denominata Buccari. Il comandante di questa azione era Costanzo Ciano. Il volo su Vienna, invece, è stato un atto dimostrativo importante. Il 9 agosto del 1918 volò su Vienna ammantando la città di manifestini che recavano dei messaggi. Un atto dimostrativo di coraggio che rese popolare la figura militare di D'Annunzio. Egli è stato fautore delle istanze contro la "vittoria mutilata" alla fine della guerra stessa e condusse quella "presa" di Fiume come un atto non solo militare ma intriso di forti connotazioni ideologiche, spirituali e nazionalistiche.

 

 

 

D'Annunzio rivendicava all'Italia, dopo la fine della guerra, il diritto a tutto l'Adriatico sino a Valona. In quel contesto numerosi furono le strategie diplomatiche per raggiungere accordi su questo problema. Restava in piedi una questione irrisolta: Fiume. A capo di un piccolo esercito D'Annunzio occupò, il 12 settembre del 1919, in nome dell'Italia, (pur contro gli accordi raggiunti dai Governi), la città di Fiume. La si ricorda come l'impresa fiumana. Qual era lo scopo di tale impresa? Era principalmente quello di creare, nell'opinione pubblica, una sollevazione contro i patti della Conferenza di Parigi.

Nel settembre del 1920 venne proclamata dai legionari di D'Annunzio l'indipendenza di Fiume e nella stessa occasione venne emanato un Ordinamento dello Stato libero di Fiume (meglio conosciuto come la "Carta del Carnaro"). L'occupazione della città e la cosiddetta "Reggenza del Carnaro" non risolsero, comunque, il problema. Man mano D'annunzio venne lasciato solo nonostante gli appoggi economici di molti industriali di quell'area geografica. La questione si risolse nel dicembre del 1920 quando il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, in virtù del Trattato di Rapallo, ordinò di soffocare nel sangue l'impresa dannunziana. Infatti, Fiume venne bombardata e i legionari lasciarono ben presto la città. D'Annunzio è stato, sostanzialmente, un precursore di quelle istanze di cui si approprierà Benito Mussolini con la nascita del Fascismo (come Partito nel 1919 e successivamente con la Marcia su Roma nel 1922).

Dopo l'impresa fiumana D'Annunzio era ormai stanco della vita politica e delle azioni militari. Aveva, comunque, creato le basi teoriche sulle quali il Fascismo iniziale era nato. L'impegno diretto politico, nonostante qualche altro tentativo, non lo stimolava più. La stessa Marcia su Roma venne accettata con quasi indifferenza. Rinunciò spontaneamente a qualsiasi altra azione anche durante i primi anni del Regime. Su Mussolini, nonostante la loro amicizia, nutriva anche molte diffidenze pur condividendo alcune impostazioni ideali. Ma si allontanò completamente dalla politica e il Fascismo lo rispettò proprio per la sua indifferenza e il suo distacco dalla vita del Regime.

D'Annunzio, proprio negli ultimi anni della sua vita, aveva invitato Mussolini a restare fedele all'amicizia con la Francia. In una lettera di D'annunzio al Duce dell'11 aprile del 1935 si legge. "Tu sai - se ti ricordi d'altri nostri colloqui arcani - quanto mi sia cara la nostra rinnovellata o principiata amicizia con la Francia ". Mentre non condivideva la posizione della Germania e non condivideva un accordo di Mussolini con Hitler, il quale, quest'ultimo, era definito, dal poeta, l'"Attila imbianchino". Tre momenti (l'interventismo, la battaglia per la vittoria mutilata e il nazionalismo, la nascita del Fascismo), dunque, che lasceranno un segno in quell'Italia che si prepara alla guerra e successivamente al Fascismo ma da scrittore e da intellettuale non misura, in termini politici, le conseguenze.

Ecco perché resta, fino in fondo, un poeta. Un poeta con la sua quotidiana tragedia del vivere che trasporterà completamente nei suoi scritti la sua passione, la sua intemperanza e quel bisogno di sfuggire al tempo. Dal 1916 al 1920 sono gli anni della preparazione politica e militare. Sono gli anni che preparano una ricca discussione sul nazionalismo, sul sindacalismo, sul socialismo, sul fascismo. Da questa discussioni si innerva il D'Annunzio comandante, il D'Annunzio che marcerà su Fiume. Non c'è dubbio che il D'Annunzio di Fiume è un D'Annunzio anarchico ma anche profondamente nazionalista.

La sua rivolta fiumana è una manifestazione di difesa del nazionalismo. Nella sua marcia e nei suoi legionari c'è la testimonianza della guerra e con le conseguenze del dopoguerra e c'è soprattutto la preparazione al fascismo che troverà in Fiume una prima prova. C'è da dire che Gabriele D'Annunzio trasforma la retorica in estetica. I suoi canti, i suoi versi, il suo atteggiarsi ci portano ad una cultura del movimento della parola intesa anche come estetica della forma. L'idea di Patria comunque in D'Annunzio non è una retorica. Si serve dell'estetismo per coniugare la parola sublime all'atteggiamento stesso. In realtà D'Annunzio si muove su un terreno espressivo in cui retorica popolare ed estetismo costituiscono la preparazione ora mimetica ora mitica ora contenutistica di una interpretazione di immagini e lessicale del linguaggio fascista. Il sentimento si intreccia con il recitativo che è una forma della complessità espressiva del vocabolario fascista.

I versi e i canti di D'Annunzio sono decodificati nel linguaggio del regime. Ma nel mito della parola c'è non solo la rappresentazione di un personaggio che incarna uno spaccato del sentire di un popolo. D'Annunzio recita ciò che il popolo vuole ascoltare. E lo fa con enfasi, consapevole del ruolo che ha avuto e interprete di un’Italia che si affaccia negli anni mussoliniani.


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