Quanta vita “privata”, per uno scrittore, può essere trasferita nella sua scrittura, nei suoi testi, nelle sue opere? Ovvero, quanta “vita” c’è dentro il testo di uno scrittore, di un poeta, di un artista? Un nodo sempre irrisolto. Ma c’è un legame o un rapporto tra vita e letteratura?
Antico dilemma. È nato prima questo girovagare labirintico nella mente che l’emozionarsi leggendo le parole che abbiamo scritto e detto e non le parole non dette? Ciò che resta sono le parole dette, sono le parole scritte, non quelle taciute. Quelle taciute restano nel cassetto, mai aperto, o nella soffitta landolfiana o nell’assurdo camusiano o nell’enigma di Ionesco, o ancora nella costante metamorfosi che va da Ovidio a Kafka. Quanta vita strazia la parola e quante parole straziano la vita e la letteratura?
C’è un irrisolto di fondo che è questo: la letteratura non dovrebbe mai essere l’espressione di una leggenda metropolitana dell’ipocrisia. Dovrebbe essere il filo che unisce la verità alla bellezza. Ho detto verità e non realtà. Ho detto bellezza e non strategia per raggiungere la bellezza. Il tutto nel sublime di un’estetica del sogno che non può essere apparenza. Ma il tempo della letteratura, quello che troviamo con le regole dell’ufficialità, in Dante e in Manzoni ha attraversato il fiume di una moralità tinta di finzioni.
Quanta vita nella letteratura? D’Annunzio, esperto di sublime e di bellezza, non ha finto quasi mai e il “Fuoco”, romanzo tosto che apre il Novecento, è una dolorante versione di una profonda trasparenza e trasposizione di un recupero di bellezza – verità nella uccisione dell’ipocrisia. Dante trasporta l’ipocrisia nella “Commedia” perché impone la punizione, perché strappa il peccato al mondo cattolico e lo porta tra le pagine della letteratura (avevamo avuto altri esempi anche prima di Dante) riducendo la letteratura a teologia della morale.
Ma Dante di quale morale parla? Punizione, condanna, peccato. Tre elementi che vivono nella vita di Dante. Poi giungeranno le stelle che porteranno la luce e la grazia. Ma se dovessimo bilanciare il rapporto tra vita e letteratura ci troveremmo di fronte a un moralista che usa la morale per strapparsi le vesti e giocarsi la sua partita anche sul piano di una strategia politica. Il suo esilio? Ma di esili e di viaggi la letteratura è ricca. Omero resta il vero maestro. Dante ci ricorda che viviamo nel peccato e che per giungere al perdono dobbiamo scontare il nostro tempo vagando tra piramidi, geometrie labirintiche, scale e scaloni e a proprio piacimento stila delle classifiche, delle graduatorie a punti e a passaggi tra Purgatorio, pre Purgatorio, stanze nuove per toccare con lo sguardo le salite e le discere per poter contare le stelle del Paradiso.
Ma l’Inferno è infernale e Paolo e Francesca sconteranno il loro amore buttati nel canto V a stracciarsi gli occhi per il loro troppo amore. Ma il grande cantico della Bibbia non ha la sua estasi con Salomone e l’erotico, passionevole, sensuale “Cantico dei Cantici”? Ma Salomone non aveva bisogno di posizionarsi come Dante nell’Occidente del cattolicesimo, perché i conti li aveva tutti giocati sul graffio della propria pelle. Dante no. Il guelfo – ghibellino che si reputava fuggiasco e mangiava il pane salato nelle isole dell’esilio. Il suo esilio? Era un confinato come Carlo Levi e Come Cesare Pavese? Sperava che con il suo render devozione alle leggi cattoliche romane apostoliche (fuori dalla circonferenza di Bonifacio VIII) potesse ottenere rifugi e si considerava oltre ogni peccato. Il giusto. Il Santo, avrebbe detto Fogazzaro. E no, la letteratura non è questa.
Quella letteratura immensa, magica, suprema nel sublime. Facile l’atteggio della condanna. Così come per Manzoni. Il cattolico che proviene dalla conversione in una notte di luna piena con i lupi urlanti, in una notte di intenso dolore, di spremitura del pensiero, di ricerche spirituali, di meditati trapassi folgoranti.
Mi scuso con Enrichetta Blondel. Lei non ha alcuna responsabilità. Tredici gravidanze. Un mandrillo d’eccezione questo Alessandro. Crea il donabbondiano miserevole personaggio, il mite Renzo, la dolce e pavida Lucia e poi il terribile don Rodrigo che capeggia la banda dei Bravi. E l’uomo scrittore dove è, cosa fa? Perché non ha spiegato a noialtri piccoli e grandi peccatori (per chi crede nel peccato) il motivo per il quale ha tenuto rinchiusa in un convento, per ben sette anni, sua figlia Matilde? Figlia di Enrichetta.
Ma in quel tempo il “bravo” Alessandro conviveva, non so se sia il termine giusto, con la contessa Teresa Borri. Nessun giudizio. Era terribilmente innamorato ma la contessa lo strigliava bene bene. Per carità non segno giudizi. Enrichetta era già morta. Il vedovo doveva pur consolarsi e il motivo per il quale la povera Matilde restava chiusa nel convento e morirà a ventisei anni di tisi dopo aver implorato, in numerose lettere, il padre Alessandro chiedendo semplicemente gesti di amore? Proprio lui che condanna il padre di Gertrude costretta dal padre a vita monastica? Aveva ben chiara l’idea del suo romanzo, un romanzo applicabile alla sua vita? Ma Gertrude – monaca di Monza è l’alter ego della figlia Matilde?
Manzoni, il convertito al cattolicesimo, condanna, fa il moralista, giudica e lascia senza amore la figlia Matilde. Punto. Quanta vita c’è nella letteratura? Deve essere chiaro un fatto. Entrambi, Dante e Manzoni provengono da una cultura che è quella cattolico – pre medievale, il primo, e illuminista – cattolica, il secondo. Questo ha un senso? Lo ha avuto certamente nella loro vita. Pezzi di vita trasferita nella letteratura. Se per D’Annunzio la vita si intreccia con la letteratura e la vita deve essere un’opera d’arte (e di questo D’Annunzio è fiero ed io sono convinto dell’onestà di D’Annunzio senza mai togliergli nulla, e il Vate non giudicava: amava anche troppo) ma che ipocrisia la vita nella letteratura – vita di Dante e Manzoni!
Una ipocrisia con la quale si sono scritte pagine di opere che hanno segnato il tempo di ciò che usiamo chiamare (per usare un eufemismo alla Carlo Levi) storia della letteratura. Il resto sono parole nella soffitta. Ma riprendiamo a leggere le opere senza mai trasgredire il legame tra vita e letteratura, o meglio tra la vita nella letteratura e la letteratura come esperienza ed espressione di esistenze. Ma le loro opere, considerate con l’osservatorio dannunziano, sono mantelli di ipocrisia, martellate di slealtà. Una ipocrisia mai rinnegata. E perché mai avrebbero dovuto rinnegare. Quella letteratura è esperienza della loro vita. Tutto il resto è soffitta.
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