Se la cultura non ha un progetto ben definito, omogeneo articolato negli eventi (parlo di eventi e non di fatti episodici o appuntamenti a pioggia), è meglio parlare semplicemente, con la leggerezza del tempo che trascorre e non dell’essere, (il vero e il contrario di Kundera) di “divertissement” (Pascal ha elaborato un trattato su questo termine: “L'unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie”; e ancora: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”, piuttosto che di tempo della cultura nella filosofia del quotidiano.
Da quando si è capito che le sagre, le mostre episodiche (ma anche quelle non episodiche ma della domenica), i concertini di quartiere, le degustazioni portano immagini e rendono il tutto nazional-popolare si è pensato di adottare il termine di politica culturale applicandola ad una tale visione. Ma così non è.
La cultura è proiezione verso la elaborazione di un progetto che debba avere un senso sul piano non solo della programmazione ma sul versante di tre caratteristiche: la conoscenza, la valorizzazione, la fruizione. Il tutto all’interno di una dimensione che è quello della tutela di un determinato aspetto che si propone. Quattro aspetti che rientrano nella “versione” tecnica della cultura intesa come bene culturale e sono, appunto, sanciti da un Codice dei beni culturali, sul quale nel 2005 e 2006 ho scritto un libro con un indicazione istituzionale.
Ebbene, anche gli Enti locali dovrebbero porre attenzione a questi quattro principi se pensano di attuare un percorso culturale che possa durare, che possa farsi testimonianza negli anni, che possa garantire un legame tra territorio e sviluppo. Ma gli Enti locali non applicano, purtroppo, questa “esperienza”, soprattutto nei mesi estivi, in cui sono convinti che si debba alleggerire il quotidiano. E allora si parli di altro e non di una impostazione culturale delle attività. Il concetto pascaliano, nel corso di questi anni, si è diffuso. Bisogna divertirsi e la cultura potrebbe, secondo alcuni, anche divertire. Questo è possibile se l’ironia del divertimento è applicata su una progettualità nella continuità degli altri eventi.
Mi è stato chiesto di recente, ed è stato chiesto a livello nazionale ad altri intellettuali, scrittori e operatori nella scuola, cosa mi potrei augurare e cosa potrei augurare per il prossimo anno scolastico alla scuola e ai “discepoli”? Presto detto. Mi rivolgo soprattutto ai docenti e ai docenti che hanno la possibilità di applicare una chiave di lettura nelle loro discipline, ovvero il gruppo umanistico (lettere e filosofia), il gruppo artistico (la lettura dei percorsi artistici, degli artisti, delle scuole di pensiero), il gruppo storico (la proposta dei documenti e non la interpretazione ideologica dei documenti soprattutto nell’età contemporanea con una relativa illogica motivazione politica come oggi spesso viene fatta). (Ho fatto raggruppamenti liberi).
Ai docenti. Cercate non di essere obiettivi, cercate di essere veri e di far parlare i testi, di far parlare gli scrittori, di leggere nella complessità l’autore e non parcellizzarli. Lo so che è complesso. Ma è il vostro sacrosanto dovere, se ci riusciti altrimenti cambiate mestiere. Un altro elemento. I libri di testi che vengono adottati. Mi auguro che ci sia una meno parzialità e una più volontà speculare e capacità critica nella lettura delle storie: da quella politica, nelle varie epoche, a quella letteraria, con la posizione dei poeti e degli scrittori, da quella filosofica non parlando di correnti a quella artistica lasciando aperta una intelaiatura tra l’opera e l’alunno.
Altro elemento ancora: mi auguro che ci sia più coraggio da parte dei docenti nel non applicare, a tutto tondo, il libro adottato e che diano un loro contributo di idee in base alla sua forza e al suo spessore culturale. Sbaglia chi considera che il docente sia un intellettuale (non si tratta di una provocazione ma di un incoraggiamento perché io resto con i docenti coraggiosi). Sbaglia, ma non di poco. Il docente ripete, spiega, interpreta e poi riporta. L’intellettuale elabora un suo pensiero, condivisibile o meno, rischiando su quel pensiero e si apre ad una vasta platea di utenza. Attenzione a non confondere i ruoli.
Perché ormai basta essere laureati per considerarsi intellettuali. Io che gramsciano non sono pongo delle distinzioni precise. È chiaro che il docente è anche un intellettuale quando riesce a scrollarsi di dosso la sua “docenza” applicata soltanto al libro e rischia con il suo autonomo pensiero. Ma questo è un altro discorso. Mi direte ora cosa c’entrano i due aspetti. Quello della cultura come sviluppo e quello della scuola. Tutto non deve essere attraversato da parentesi ma da una impressionante continuità. Dalla cultura come conoscenza dei territori alla scuola come formazione. La scuola come “agenzia educativa”, si diceva una volta, deve percepire le istanze di una cultura che vive il territorio e abita le identità, le eredità, le appartenenze che sono espressioni di un bene culturale sommerso e viaggiante.
La cultura, come bene culturale, e la scuola, come elemento viatico della storia delle culture. Non sono due aspetti. Bisogna far in modo che si apra una prospettiva diversa nei confronti di questo viaggio unico tra identità e formazione. Ecco perché parlare di bene culturale o di cultura senza l’innesto con una scuola coraggiosa e con dei docenti che sappiano operare con la capacità degli intellettuali non avrebbe senso. Ci sono docenti che hanno una loro marcata professionalità. Devono avere coraggio.
Anche gli intellettuali devono avere coraggio e cercare di non essere mai organici. Ma liberi da vincoli di parantela e forti nell’essere sempre contro (Sciascia). Bisogna saper scegliere. Machiavelli, Pirandello, Sciascia, Camus, Ionesco. La storia della cultura è storia di beni culturali, ma è storia pedagogica di un progetto articolato tra realtà materiale e immateriale. Solo così io posso leggere un nuovo che ancora non c’è.
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